I TESORI D’ARTE E ARCHITETTONICI DEL CONVENTO DELLA SANTA SPINA.

 

LA FACCIATA

La struttura si apre su un ampio piazzale costruito nel 2004, pavimentato con cubetti di granito silano e listato di pietra “màzzaro” di Gravina molto simile alla pietra locale “parrera”, ma con caratteristiche meccaniche superiori, più adatta alla carrabilità. La facciata a capanna, semplice, essenziale nelle sue linee, presenta un timpano che sembra sia stato ricostruito durante qualche improprio restauro, spogliando la finestra degli elementi architettonici.

Il Campanile trecentesco, antecedente all’attuale chiesa,  ha tre piani fuori terra, a pianta quadrata, dove si incastra il portale d’accesso al convento (in pessimo stato di conservazione) e un quarto piano a pianta ottagonale  con cupola. Tutta la facciata del campanile é  rivestita in pietra arenaria  policastrese squadrata.

La pianta della chiesa, asimmetrica rispetto all’asse dell’altare,  è a navata unica. Ha assunto questa conformazione dopo i lavori di ampliamento e restauro settecenteschi che ne hanno cambiato l’orientamento, infatti la porta principale d’ingresso alla chiesa era posta ad ovest dove c’è l’attuale sacrestia, ed il vecchio altare nei pressi dell’ingresso attuale.

 

Il PORTALE

Le opere d’arte che il Santuario custodisce sono notevoli, è caratterizzato da una facciata a capanna dove è stato incastonato un bellissimo portale tardo rinascimentale, in pietra locale a tutto sesto, guarnito da semi colonne laterali terminanti in capitelli di stile corinzio; l’architrave, datato 1699, presenta elementi decorativi come girali fitomorfi, angeli o testine alate, elementi scolpiti a rilievo che si presentono anche  nelle semicolonne (cfr R. M. Cagliostro, Atlante del Barocco in  Calabria, Roma, 2002). Studi recenti propongono tracce “maya” nel medesimo portale, il riferimento più chiaro è alla civiltà del popolo Maya sia per quanto riguarda i riferimenti vegetali presenti, sia per una analogia agli dei di quelle lontane terre  (cfr F. Cosco, Le orme del Monachesimo nel territorio del Parco Nazionale della Sila, Roma, 2014)

ALTARE E DECORAZIONI IN MARMO

La chiesa presenta una navata unica, impreziosita da opere di notevole fattura: l’altare maggiore, un’opera in stile barocco, tutta in marmo bianco e colorato, realizzato nel 1764 per interessamento del ministro provinciale pro tempore Padre Giuseppe da Migliarina come riportato sulla base: «M.R. Padre Giuseppe da Migliarina – Minister Provincialis – aram hanc construere fuit A.D. 1764»(cfr. D. Mauro, La Santa Spina, Petilia, 1984).

L’altare presenta un disegno simile a quello degli altari realizzati da Silvestro Troccoli e dalle maestranze napoletane dei Palmieri o dei Trinchese,  nella chiesa del Ritiro nel comune di Mesoraca, costruito con pregiati marmi bianchi alternati a lastre in marmo policromo secondo disegni geometrizzanti.

L’altare maggiore  presenta, al centro in basso un ricco rilievo raffigurante l’Ostia Sacra sorretta da due angeli adoranti impreziosito da motivi geometrici e floreali; sempre centralmente, ma in alto  la presenza di un tabernacolo, dove viene custodita l’eucarestia, impreziosita da elementi argentei, sormontato da un baldacchino impreziosito da tre teste di puttini in marmo bianco; lateralmente sui fianchi dell’altare due angeli capialtare.  Tra le opere in marmo  sono presenti due angeli reggi-candelabro in marmo bianco di pregevole fattura riposti nelle nicchie di destra e di sinistra; si ricordano anche resti della balaustra che delimita la zona presbiteriale (cfr R. M. Cagliostro, Atlante del Barocco in  Calabria, Roma, 2002).

L’ altare è l’esempio di come attraverso l’architettura e l’arte, accanto allo straordinario amore per una bellezza che deve essere innanzitutto sfarzosa, una decorazione marmorea ricca, come quella dei marmi misti che accendono di colori e di fasto alcune Chiese e cappelle del secondo Seicento e del primissimo Settecento calabrese, fa pensare anche all’animosa emulazione fra le diverse case religiose, e le famiglie nobili che le sostenevano. Certamente un forte incentivo allo sviluppo fu la presenza nel Meridione di numerose varietà di marmi pregiati, noti fin dall’antichità: come il verde di Gimigliano, il bianco leccese, i rossi di Castellammare, di San Vito e di Piana dei Greci, i gialli di Castronovo e Segesta, i grigi di Billiemi ed Erice, nonché i marmi brecciati policromi come il libeccio, proveniente dalle cave del trapanese, detto “pietra di libici” nei documenti.

Il mestiere del marmoraro o dello scultore veniva tramandato di generazione in generazione all’interno della stessa famiglia. Possiamo presumere che il maestro non lavorasse da solo ma insieme ad apprendisti e collaboratori. Con questo sistema, artisti e artigiani potevano contare su mano d’opera a basso costo, che si andava via via specializzando all’interno della bottega, spesso continuando a lavorare per essa. Non diversamente che ai giorni nostri, l’affidamento di un compito a uno scultore o a un’équipe di marmorari avveniva tramite contratti stipulati presso pubblici notai o attestati da scritture private, talvolta dopo vere e proprie gare d’appalto.

Le opere affidate dovevano essere realizzate secondo minuziosi capitoli redatti in precedenza da architetti o ingegneri, che definivano i lavori prevedendo compensi e modalità di esecuzione. I lavori per privati e ordini religiosi venivano spesso affidati a coloro che si offrivano per il prezzo più basso; nel caso di opere impegnative, i marmorari si consociavano in gruppi che si impegnavano in solidum, secondo cioè una responsabilità collettiva. I contratti ad personam erano più rari, e venivano stipulati nel caso di opere di poco conto, i cui prezzi erano piuttosto standardizzati (gradini, predelle, balate) o, al contrario, per opere di una certa importanza, per le quali ci si voleva assicurare l’intervento di un determinato artista. Infatti, quando si trattava di opere dove l’abilità del singolo scultore era preminente rispetto alla direzione unitaria di un architetto, come nel caso di statue a tutto tondo, rispetto a cappelle e decorazioni a mischio, l’aspettativa di un risultato prestigioso portava il committente a rivolgersi ai migliori (cfr. G.Giglio, Capolavori d’arte nei conventi dei Frati Minori di Calabria, Calabria Letteraria, 2019).

Il CAPPELLONE DEL SANTUARIO DELLA SANTA SPINA

La pala reliquiario, detto anche “Cappellone”, custodito nel Santuario della Santa Spina di Petilia Policastro (Crotone), è uno dei pochi esempi rimasti fortunatamente integri di tali manufatti.

Poggiata sulla parete di fondo del presbiterio, dietro l’altare maggiore rispetto al quale è sopraelevata, vi si accede tramite una scala lignea a doppia rampa completata di elegante balaustrata.

La pala è formata da una grande nicchia centrale che accoglie la custodia della Santa Spina, realizzata sotto forma di un  tabernacolo a tempio, ed è contornata da dodici piccole nicchie che espongono altrettanti busti reliquiari. Realizzata interamente in legno completamente intagliato e dorato a foglia, presenta una qualità molto alta della lavorazione collegata a una elegante ripartizione degli ornati. Il tutto è contornato da una larga cornice e completato in alto da un cappello ligneo.

La cornice esterna è decorata da grandi girali di ispirazione vegetale, che si rincorrono partendo da due girali centrali specchiati e uniti a groppo. L’interno, invece, presenta negli spazi tra una nicchia e l’altra delle sagole di foglie e fiori, uniti a encarpi di frutta che si alternano a teste d’angelo e di serafini. Questi ultimi, simbolicamente allusivi alla Passione di Cristo, sono significativamente realizzati nelle specchiature centrali superiori e inferiori, in asse con la custodia della Santa Spina. I catini delle nicchie sono decorati da un intaglio a valve di conchiglia.

La custodia è sul modello a tempio, tipico dei tabernacoli realizzati in ambito francescano riformato e cappuccino. Essa è composta da una base, da tre piani e da una cupola a bulbo sormontata da un’alta decorazione che termina con una piccola croce apicale. La prima sezione, quella che poggia direttamente sulla base, è alleggerita da piccole colonne tenute libere da elementi strutturali aggettanti e da nicchie con statuette. Tali edicole si ripetono nella seconda sezione, dove sulle colonne sono poste delle volute con pigne. La terza sezione, accompagnata da piccoli sguanci concavi sostiene la cupola a bulbo dalla bella decorazione vegetale sulla quale svetta la croce accompagnata sulle estremità da due angeli, recentemente ritrovati. Sui riquadri centrali delle tre sezioni sono intagliati, partendo dal basso verso l’alto: il reliquario della Santa Spina; un mascherone; la Colomba simbolo dello Spirito Santo.

I reliquiari delle nicchie laterali sono del tipo antropomorfo “a erma”, cioè con solo busto svasato verso l’alto e poggiato su un piccolo plinto geometrico. Il busto è panneggiato all’antica e sul petto è il grande vano reliquiario, oggi vuoto. Sono dipinti al naturale e le aureole sono in legno intagliato e dorato.

L’iconografia e lo stile dell’opera si ispirano ancora alla tradizione rinascimentale dell’intaglio calabrese, ma il ritmo serrato della composizione fa trasparire la sua realizzazione in età barocca. Infatti, come è stato notato da Giorgio Leone (cfr. G. Leone, in Calabria, a cura di R. M. Cagliostro, Roma, 2002), questa diversa applicazione e ritmo serrato dei decori di ispirazione settecentesca è tipica delle maestranze regionali per tutto il Seicento, perdurando in alcune aree addirittura fino a gli inizi del Settecento. I busti, inoltre, sono molto vicini a quelli custoditi nella chiesa di San Adriano e di San Demetrio Corone (Cosenza) e nella chiesa di Santa Maria degli Angeli di Badolato (Catanzaro)

La storiografia locale ritiene che il Cappellone della Santa Spina sia stato realizzato per volere di padre Ludovico Spinelli tra il 1724 e il 1725 (cfr. D. Mauro, La Santa Spina, Petilia, 1984). Nessuna fonte o documento, però, ci assicura di questa datazione che, fatta eccezione per la custodia e per le pitture su tavolato che decorano il cappello – da attribuire a un pittore meridionale di ispirazione giordanesca -, sembra in realtà molto tarda rispetto ad alcune soluzioni dell’intaglio e alla conformazione dei busti reliquiario. Si potrebbe supporre, allora, che l’intervento voluto da padre Spinelli sia da limitare solo a un possibile ammodernamento dell’opera, cioè all’esecuzione della custodia e delle pitture.  Inoltre, si potrebbe pensare a una possibile assegnazione della pala in questione a intagliatori Francescani Riformati, come del resto sembrerebbe logico considerando l’appartenenza dell’edificio allo stesso Ordine. In seno a questo, infatti, tali modelli di ispirazione antica ugualmente perdurarono per lungo tempo, venendo contestualmente sottoposti a continui aggiornamenti, come plausibilmente potrebbe essere avvenuto nel caso che si presenta. Tale congettura, infine, potrebbe trovare conforto anche nella precedentemente ricordata somiglianza dei busti reliquiari con quelli della chiesa di Santa Maria degli Angeli di Badolato, anch’essa appartenete ai Francescani Riformati.

IL SOFFITTO DIPINTO SU TAVOLATO DAL PITTORE CRISTOFORO SANTANNA

Il soffitto dipinto su tavolato della chiesa del convento francescano di S. Maria delle Grazie a Petilia Policastro (Crotone), meglio conosciuto come Santuario della Santa Spina, è stato realizzato nel 1781 dal pittore Cristoforo Santanna (Marano Marchesato, 1734ca. – Rende, 1802), come si apprende dalla firma e dalla data appostevi: «Christophorus Santanna Pingebat A.D. 1781».

Realizzato secondo una consuetudine tecnica calabrese, comunque molto diffusa in Italia meridionale e in altre aree di influenza spagnola, ben poco si conosce sulla sua storia costruttiva e sulla committenza. Diversamente, si può affermare che Cristoforo Santanna – pittore nato nell’odierna cittadina di Marano Marchesato, ma educato a Rende sede del feudo cui apparteneva Marano -, agli inizi degli anni Ottanta del Settecento, era al vertice della sua popolarità nella committenza ecclesiastica della Calabria Citra e nell’area del Marchesato di Crotone. Motivi per cui, sicuramente, doveva risultare ancora vivo il ricordo delle sue belle tele realizzate nel 1754 e nel 1756 per la chiesa dell’Annunziata e per il Santuario dell’Ecce Homo a Mesoraca, cittadina tra l’altro prossima a Petilia Policastro.

Relativamente alla committenza – che va inserita in quel fenomeno di rinnovamento secondo il gusto barocco e rococò dell’edilizia ecclesiastica calabrese registrato nella seconda metà del Settecento -, la storiografia locale, poco credibilmente, ha ritenuti i Borboni diretti patrocinatori dell’opera. Questo perché sul soffitto è dipinto lo stemma del Regno, ma tale presenza è sicuramente da riferirsi a qualche privilegio reale sul convento francescano di Petilia Policastro.

Si può supporre, invece, che l’incarico venne affidato a Cristoforo Santanna dagli stessi Francescani, proprietari del Convento. Giacché sia sul soffitto sia sull’altare marmoreo – realizzato nel 1764 -, compaiono rispettivamente i nomi di Padre Giuseppe da Miglierina sull’altare, e di Padre Francesco e Antonio da Miglierina sul soffitto. Quindi sono gli stessi francescani che promossero la realizzazione delle opere nell’intero abbellimento dell’edificio.

Il soffitto di Cristoforo Santanna, secondo le cronache locali, sostituisce un analogo intempiato costruito nel 1657, distrutto, poi, in un incendio. Sotto la cantoria e sul baldacchino del cosiddetto “Cappellone” collocato nel presbiterio, inoltre, sono state rilevate ampie porzioni di un altro soffitto stilisticamente assegnabile alla prima metà del Settecento, pertanto anche esso precedente a questo ancora in situ. La presenza di un soffitto più antico di questo di Cristoforo Santanna è stata segnalata anche nel recente restauro condotto dalla dott.ssa Alessandra Mammone, con la direzione della dott.ssa Rosanna Caputo della Soprintendenza per il PSAE di Cosenza. In ogni modo, qualunque sarà la risoluzione cronologica e attributiva di tali successioni di soffitti, all’interno della chiesa, la realizzazione di Cristoforo Santanna risulta esemplificativa del suo stile maturo, indirizzato verso gli ultimi svolgimenti napoletani del Settecento.

Il tema iconografico principale del soffitto è l’Assunzione e Incoronazione di Maria Vergine, raffigurata nel medaglione di tela centrale, incastonato da una grande e bellissima cornice in legno intagliato e dorato. La composizione presenta uno schema piramidale, dove il vertice corrisponde al Padre Eterno e al Figlio, uniti in Trinità con lo Spirito Santo, nell’atto di accogliere la Madonna, rappresentata con solennità, mentre viene incoronata – come regina del cielo e della terra – e ascende al cielo. Gli apostoli, in basso, stupefatti, guardano verso l’alto, perché secondo le narrazioni apocrife, furono miracolosamente trasportati ad assistere a quest’avvenimento straordinario.

Il tema iconografico dell’Assunzione e Incoronazione di Maria Vergine, è associato a quattro medaglioni angolari, dipinti direttamente sul tavolato e raffiguranti: Deborah, Giuditta, Ester e Assuero, Giaele. Queste figure si presentano perfettamente inserite nello spazio loro riservato, dipinte al naturale e con pose magniloquenti.

Deborah viene rappresentata come una figura coraggiosa e influente, per il suo ruolo nella veste di giudice, profetessa e leader del popolo di Israele nell’Antico Testamento. Giuditta è una donna ritratta attraverso la sua immagine di forza e di eroismo, poiché ha sconfitto il generale assiro Oloferne – del quale  mostra la testa mozzata -, liberando così il suo popolo dalla minaccia dell’Assiria. Ester e il re persiano Assuero, lei una donna bella e virtuosa, ritratta in abiti regali e ornamenti, poiché la storia la vede diventare regina di Persia. La sua figura è associata alla virtù, al coraggio e all’intelligenza, in quanto ha usato la sua astuzia per salvare il suo popolo e fermare un complotto contro di loro. La figura di Giaele è dipinta come una donna coraggiosa e forte, con un  piccone nella mano destra strumento che utilizzò per uccidere Sisara, in grado di compiere azioni straordinarie per la liberazione del suo popolo.

A livello di una lettura iconologica dell’insieme, queste eroine bibliche, sono prefigurazioni vetero-testamentarie della Beata Vergine; appare molto interessante la loro annessione al tema mariano centrale e a quello francescano e locale espresso da altri due medaglioni figurativi: l’Estasi di San Francesco d’Assisi e La consegna della Santa Spina a Padre Dionisio Sacco da parte della Regina Giovanna di Valois.

Rilevante è la scena di San Francesco di Paola, colto in un momento di sublime estasi, ispirata dall’archetto di un violino, toccato magicamente dalla mano di un angelo.

Questi sono posti rispettivamente – e non senza una studiata coincidenza – nel settore del soffitto relativo alla cantoria e alla zona presbiterale dove, in un interessante e notevole dossale ligneo sopraelevato è custodita la reliquia della Santa Spina. È possibile che questa correlazione iconologica riveli un significato allegorico legato alla devozione locale della Santa Spina. Recuperando il ruolo avuto dalle donne, la Madonna compresa, attraverso l’unione iconografica della regina di Francia e delle eroine bibliche, nella storia della Salvezza; della quale la reliquia della Santa Spina ne è l’espressione più alta e significativa. Ricordando in tal modo, attraverso l’Assunzione della Beata Vergine, il fine ultimo della storia umana.

Il soffitto, analizzandolo dal lato costruttivo e compositiva, presenta uno schema tecnico-formale basato su un’illusoria prospettiva di matrice quadraturistica, dipinta direttamente sul tavolato e formata da grandi arcate laterali sagomate con finti cornicioni che propongono un gioco articolato e incastrato, in prima e seconda veduta, con elementi architettonici mischiati a partiture barocche e rococò. Esse sono impreziosite di motivi decorativi e ornamentali come mascheroni, cammei, clipei angolari, volute, girali conchiglie, grottesche, festoni di foglie e fiori. Lo scopo dell’intera composizione illusoria – che dilata il perimetro del soffitto e delle mura contigue -, è quello di contribuire maggiormente a unificare lo spazio reale e lo spazio illusorio in un tutt’uno spettacolare, come è proprio delle istanze della cultura barocca. 

 

Se da un lato, nella realizzazione dell’opera, il pittore, dimostra la padronanza di un proprio linguaggio, fatto di una buona tecnica costruttiva e di formule compositive e gamme coloristiche corpose e accese; dall’altro, la condotta formale dell’insieme, evidenzia ancora una volta l’attività di uno staff specializzato che esegue le indicazioni del pittore. Una schiera di aiuti, già forse riuniti in una “bottega”, ai quali, nel caso specifico, deve essere attribuita la resa un po’ grossolana di alcuni tratti  formali e brani coloristici. La storia e la decorazione del soffitto ligneo di Petilia Policastro sono state analizzate assieme agli altri simili lavori di C. Santanna nella tesi di laurea della profssa Francesca Carvelli discussa con la prf.ssa Patrizia Zambrano e il prof Giorgio Leone, il 10 Marzo 2004, all’Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia,  (presidente di commissione prof. Luigi Spezzaferro).

 

MADONNA CON BAMBINO

La Madonna con Bambino esprime un linguaggio scultoreo plastico riconducibile a soluzioni stilistiche di Giandomenico Mazzolo (Carrara 1510-1577ca), figlio di Giovan Battista Mazzolo che risulta attivo dal 1513, come scultore a Messina dove, probabilmente dopo esser stato allievo di Antonello Gagini (Palermo 1478-1536), emerge a capo di un’affermata bottega di scultori toscani che caratterizzano la cultura artistica della Sicilia e della Calabria (cfr. G.Giglio, Capolavori d’arte nei conventi dei Frati Minori di Calabria, Calabria Letteraria, 2019).

La Madonna presenta una costruzione solida, un modellato morbido e pastoso, con ampie movenze del panneggio, in particolare, il ricadere delle pieghe del manto sulla gamba destra, trattenuto dall’elegante e sinuosa mano che ricordano nel modus operandi la Santa Lucia realizzata da Giandomenico nel 1546 per la chiesa di Sant’Agata di Castroreale (Messina). L’impostazione del Bambino, del quale risaltano la posa incerta e l’inesattezza delle proporzioni, è analoga a soluzioni ricorrenti nel Mazzolo. Il gruppo scultoreo traduce in un linguaggio più corsivo l’ampiezza e la pastosità di modellato, che caratterizzavano lo stile di Antonello Gagini  negli anni Venti.

La scultura, in marmo bianco di Carrara con dorature, poggia su uno scannello a sezione policroma nel cui prospetto sono raffigurati: l’Emblema francescano entro un ovale, a sinistra; un identificativo stemma gentilizio della famiglia Callea, a destra; l’iscrizione “Santa Maria De La Gratia. 1554”, al centro.

GLI ARMADI DELLA SACRESTIA

Gli armadi della sacrestia del Santuario della Sacra Spina di Petilia Policastro (Crotone) costituiscono uno degli esempi più eleganti e raffinati dell’intaglio calabrese settecentesco.

Situato nella sacrestia, cui si accede dal presbiterio e proprio da sotto il cosiddetto “Cappellone” , è addossato alle pareti rivolte ad ovest e a sud dell’ambiente rettangolare, dove fino ai primi anni del 1700 era posta la porta d’ingresso alla chiesa.  E’ costruito in legno di noce – lavorato a massello, a trancia e a impiallacciatura,  la sua superficie è suddivisa in tre sezioni, impostate su uno zoccolo di base e accentuate da una sporgenza che, sebbene non simmetrica, si trova in asse alla porta d’accesso alla sacrestia. La storiografia locale ritiene che il Cappellone della Santa Spina,  sia stato realizzato per volere di padre Ludovico Spinelli tra il 1724 e il 1725 (cfr. D. Mauro, La Santa Spina, Petilia, 1984). Nessuna fonte o documentoci assicura di questa datazione. Si potrebbe supporre, allora, che l’intervento voluto da padre Spinelli sia da estendere ad un’opera di ammodernamento di tutta la struttura, cioè dall’esecuzione della Pala, della sacrestia e delle pitture. Si potrebbe pensare a una possibile assegnazione della sacrestia in questione a intagliatori Francescani Riformati, come del resto sembrerebbe logico considerando l’appartenenza dell’edificio allo stesso Ordine. Molti i rimandi stilistici con il bellissimo coro in legno di noce, intagliato con fregi, opera attribuita ai frati francescani Gennaro da Bonifati e Giuseppe da Grimaldi, databile tra il 1763 al 1767 , conservato nel Santuario del Santissimo Ecce Homo nel comune di Mesoraca.

Attualmente il mobile del Santuario della Sacra Spina risulta essere in perfetto stato di conservazione dopo l’imponente restauro effettuato nei primi anni del nuovo millennio, a seguito di furti e sparizione delle parti originarie,  nel corso degli anni novanta del Ventesimo secolo.

IL CHIOSTRO

Il chiostro è quattrocentesco e conserva quasi intatta la tipologia dei conventi francescani. Subì vistosi rifacimenti e in esso sono stati murati alcuni frammenti architettonici risalenti al vecchio cenobio. Si accede attraverso un portale in pietra, tardo rinascimentale,  a sesto acuto, incorniciato da un motivo a rilievo lineare e guarnito da colonne. Sopra il portale è presente lo stemma araldico dell’ordine Francescano: due braccia che s’intrecciano e al centro una croce.

Sulla parete di fronte si trova la porta, che attraverso le scale, permette l’accesso alla parte superiore del monastero dove sono presenti le celle dei frati; lateralmente si apre l’antica porta che consente di entrare nella parte absidale della chiesa e  di accedere alla sacrestia. Sulla parete attigua è presente la biblioteca, l’attuale refettorio, con un vano di accesso alla Salone di preghiera.

Liceo “Raffaele Lombardi Satriani”Petilia Policastro
Sotto Egida della Dirigente prof.ssa Antonella Parisi

Contributi curati dagli studenti e dai docenti:
3B e 4B Liceo Scientifico
4C e 5C Liceo Linguistico
5A Liceo Scienze Umane
5B Liceo Economico Sociale
Prof.ssa Francesca Carvelli
Prof.ssa Petronilla Esposito
Prof.ssa Silvana Giordano
Prof.ssa Manuela Muratgia
Prof.ssa Eloise Tesoriere

Assistenti tecnici
Franco Fassari (fotografie) e Emanuele Lepera (allestimento sito)

Consulenza storico-artistica
Prof Giovanni Ierardi
Arch. Rosario Marrazzo

Consulenza linguistica
Prof.ssa Rossella Atteritano
Prof.ssa Anna Maria Carvelli
Prof.ssa Angela Defazio
Prof.ssa Angelica Fortunato
Prof.ssa Silvana Giordano